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Afghanistan: non è la prima volta

Un articolo un po' diverso, ma su una questione molto attuale, fuori da Cortona, che ha colpito il mondo intero e che ancora a distanza di alcuni mesi, riesce a scuotere l'opinione pubblica.

 

L’intervento in Afghanistan rappresenta un enorme disastro strategico ed umanitario, e sebbene venga spesso ricondotto alla guerra del Vietnam, non tutti si ricordano di un’altra ritirata famosa, avvenuta sempre in Afghanistan: quella dell’Unione Sovietica.


Poche settimane fa in Afghanistan sono iniziate le procedure di ritiro delle truppe da parte degli Stati Uniti e di altri stati impegnati nel territorio afghano, tra cui anche l’Italia: parliamo di un numero che ammontava a 12.000 truppe al momento dei trattati di Doha e di 2.300 – 2.500 soldati al momento dell’annuncio di Biden, per quanto riguarda gli americani, con un bilancio di perdite statunitensi, fino al 2018, che ammontava a poco più di 2400 (alle quali inevitabilmente dobbiamo aggiungere altri dati, compresi i 13 marines morti pochi giorni fa negli attentati all’aeroporto di Kabul).


IL 14 AGOSTO, Federico Rampini, giornalista, scriveva su Twitter che «non ha senso il paragone tra il ritiro degli americani dall’Afghanistan e la ritirata del Vietnam nel 1975». Questo per due motivi principali, come spiega nel suo articolo su la Repubblica: il numero di soldati impegnati nelle rispettive guerre ed il numero di vittime. In Vietnam, spiega Rampini, «combattevano mezzo milione di persone», mentre in Afghanistan il picco massimo è stato di 98.000 soldati; per quanto riguarda le vittime, in Vietnam ne morirono «più di cinquantamila», mentre in Afghanistan 2.300. Spiega che questo parallelismo è semplice argomento da opinionisti. Sebbene le foto dell’elicottero americano in partenza da Kabul abbiano rievocato quelle di Saigon del 1975, il paragone potrebbe essere azzardato, ma senz’altro, quello che discutiamo qui, è molto più vicino. Prima di accennare all’attraversamento di quel ponte verso l’Uzbekistan, che segnerà la fine della guerra in Afghanistan, tra il maggio del 1988 ed il febbraio del 1989, dobbiamo ricordare una storia complicata e che lascerà il segno su una terra, considerata da sempre solo una “provincia di confine”.

POTREMMO AFFERMARE che il rapporto tra la Russia e l’Afghanistan nasce ben prima della formazione dell’Unione Sovietica, a causa della sua posizione strategica, seppur di carattere politico neutrale fino al 1919, data in cui il re dell’Afghanistan Amanullah Khan riconobbe la neonata Unione Sovietica come governo legittimo. L’Afghanistan aveva funzione, nell’epoca tardo-colonialista dell’Ottocento, di stato cuscinetto tra le due superpotenze dell’India britannica e della Russia zarista, poi Unione Sovietica, tanto da intraprendere trattati di sostegno e dichiarazioni di guerra, sin dal 1839, per poi continuare fino ad una terza guerra anglo-afghana, proprio nel 1919. L’Afghanistan riuscì a tenersi fuori dalle alleanze e le strategie della Seconda guerra mondiale, ma non da quelle della Guerra fredda, dato l’intervento politico dell’URSS nel Paese da un lato, a sostegno di quello che sembrava potesse diventare una nuova orbita socialista in oriente, da contrapporre anche a quella della Cina, e l’intervento americano dall’altro, per respingere le influenze sovietiche e per garantirsi invece un alleato in quella zona. Questo portò ad un enorme crescita economica dell’Afghanistan, con la creazione di una strada che unisse le tre città principali del Paese e con la creazione di nuove infrastrutture, finanziate per metà dagli Stati Uniti e per metà dall’URSS. Venne anche implementata l’istruzione con nuovi studenti iscritti all’Università di Kabul, la stessa Università dove però si svilupperanno, in maniera prolifica e diffusa, gli estremismi d’ispirazione socialista da un lato, e islamica dal’altro. Sebbene una difficile situazione interna, che aveva visto delle fratture nei rapporti tra la monarchia ed il governo, passando dalla monarchia di Modammed Zahir Shah nel 1933, in uno stato ancora in via di sviluppo, al governo autoritario del 1953 sotto il Primo ministro Mohammed Daud Khan, nel 1964 venne creata una costituzione che garantiva una democratizzazione del sistema politico afghano, con non solo l’emancipazione delle donne, ma anche la nascita di partiti politici legittimi e fuori dalla clandestinità, tra cui il PDPA (Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan) di ispirazione marxista e detentore di rapporti con il PCUS. Si scisse poi in due fazioni nel 1967 (nonostante entrambe mantenessero lo statuto del PDPA come statuto ufficiale): una era quella della Palcham (“bandiera”), più moderata e convinta che la rivoluzione andasse fatta a tempo debito e che la via al socialismo si sarebbe attuata anche con l’aiuto del sovrano; e la Khalq (“popolo”), convinta che la rivoluzione dovesse essere effettuata rapidamente e con azioni violente. Con questa instabilità, la monarchia aveva le ore contate, tanto che nel 1973, il già citato Primo ministro Daud Khan effettuò un colpo di stato, spodestando il cugino monarca (che intanto era in Italia per delle visite mediche) ed instaurando la Repubblica Democratica Afghana. Politicamente, il nuovo Presidente faceva riferimento alle forze marxiste, in particolare a quelle del PDPA e dei movimenti universitari radicalizzati politicamente. Il nuovo governo repubblicano abolì la costituzione del ’64 e promosse, sebbene in misura minore, le riforme di modernizzazione del paese, non riuscendo però a superare l’area della provincia di Kabul, mantenendo il resto del paese in una sostanziale povertà e ruralità. La cacciata delle forze del PDPA dal Governo e la loro messa al bando (a seguito di alcune discordie sul come gestire i rapporti con Mosca) fecero però traballare gli equilibri politici del, di fatto, dittatore, portando nel 1978 alla rivoluzione di Saur, dove Taraki, il leader della fazione del Kalq, prese il potere con il temporaneamente riunificato PDPA. Una curiosità: durante il governo di Daud Khan, i pakistani riuscirono a far evacuare due leader del partito islamico afghano (che Daud Khan aveva fortemente represso), uno dei due era Gulbuddin Hekmatyar, il futuro mujaheddin, che in Pakistan troverà terreno fertile, come per tutti gli altri membri islamici, per l’istruzione e l’addestramento degli studenti di religione, i futuri Talebani. C’è da dire che sia Daud Khan, che Taraki, che il vice-primo ministro Amin (di cui scriverò più avanti) intrattennero buoni rapporti con l’Unione Sovietica (seppur neutrali sotto il primo, comunque amichevoli in tutti e tre i casi), ed il PCUS è sempre stato favorevole a qualunque azione governativa afghana, quasi non prestando attenzione alla scelta di un indirizzo per questo paese, a patto che rimanesse in un’orbita amichevole. Taraki infatti propose delle politiche sociali riformatrici e di stampo socialista molto profondo, convincendo anche Brežnev ad accoglierlo come alleato. Gli islamisti radicali però, con il supporto del Pakistan, non accettarono le riforme del PDPA, e riuscirono a prendere consensi tra la popolazione rurale, fuori da Kabul, che non aveva accettato (o non conosceva neanche) le idee socialiste, e scattarono guerriglie per tutto il paese. In questo contesto gli Stati Uniti decisero di attuare una strategia simile a quella adottata in Vietnam, provando a fornire aiuti militari agli insorti, in modo da logorare le forze sovietiche, senza un effettivo intervento armato. I sovietici erano diffidenti nei confronti di un’azione militare in territorio afghano, poiché erano memori del fallimento americano in Vietnam, e temendo di commettere lo stesso errore, tentarono di risolvere la questione diplomaticamente, provando a riunificare le fazioni del PDPA contro gli insorti. Taraki si fece garante di questa riunificazione, ma nel 1979 venne assassinato dai membri del Kalq ostili al partito unico, portando al potere il vice-primo ministro, Hafizullah Amin. Questo attuerà un regime simile a quello del predecessore Daud Khan, con l’unica differenza che il suo regime durerà un anno. L’Unione Sovietica ancora dubitava sull’effettivo intervento in Afghanistan, e dopo il fallimento delle politiche di Taraki, provarono ad assassinare Amin con l’aiuto del KGB, non riuscendo però nell’intento (un po’ come con Tito in Jugoslavia, che scampò ad un discreto numero di attentati ordinati da Stalin), poiché i medici sovietici presenti in Afghanistan non avevano ricevuto le direttive, ed erano convinti di dover aiutare il Presidente afghano. Anche Amin era convinto che i sovietici fossero dalla sua parte, a causa di un fraintendimento avvenuto tra lui e Brežnev. Al Cremlino si diffuse la voce che Amin avesse rapporti con la CIA e con i gruppi guerriglieri islamici, e questo portò alla decisione di un intervento armato in Afghanistan da parte dei sovietici. Le aspettative erano le stesse degli americani per la guerra in Vietnam: riportare l’ordine, instaurare un governo malleabile e ritirare le truppe, in questo caso «entro tre anni» secondo lo Stato maggiore.

L’INTERVENTO ARMATO iniziò in un ambiente nazionale silente: i sovietici avevano iniziato a mandare truppe in Afghanistan già a partire dalla metà di dicembre, nel rispetto del trattato di amicizia del 1978, ed i consiglieri presidenziali erano stati esortati a convincere il Presidente Amin a spostarsi in una residenza privata, fuori da Kabul, separandolo così dalle forze militari a lui fedeli. Il 24 dicembre del 1979, trovarono praticamente già tutto pronto, e l’attacco fu molto rapido. Amin fu assassinato nel palazzo presidenziale dove si era ritirato, dopo un fallito tentativo di avvelenamento (salvato, come nei casi precedenti, da un medico sovietico). Fino all’ultimo lui credette di essere un alleato dei russi, tanto che appena uscito dalla stanza in cui era stato avvelenato, dopo essere stato informato dell’attacco al palazzo presidenziale, con ancora la flebo al braccio, gridò: «I sovietici ci aiuteranno!». Se dal punto di vista interno l’Unione Sovietica non incontrò difficoltà, non si può dire dal punto di vista internazionale: oltre a subire delle sanzioni da parte dell’ONU, all’interno del Patto di Varsavia la Romania condannò le azioni russe, così come fecero in oriente l’India e la Corea del Nord. Carter, Presidente degli Sati Uniti, sospese la ratifica degli accordi Salt-II. In Italia, ci fu una grande opposizione all’intervento sovietico in Afghanistan, tra cui quella dello stesso segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer («Di fronte a tale intervento, che costituisce una violazione dei principi di indipendenza e sovranità nazionale, il PCI ribadisce il proprio netto dissenso»).

NEL 1985 si ha la prima testimonianza di una volontà, da parte dell’Unione Sovietica, di un ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Perché questo, già nel 1985? Perché sebbene l’intervento fosse stato rapido, la resistenza successiva non lasciò spazio ai russi per consolidare il loro potere: i mujaheddin, difensori della jihad, ottennero sempre più terreno ed armi sempre più sofisticate, riuscendo a vincere in sempre più battaglie. I sovietici continuavano a perdere aerei e truppe, questo perché la maggior parte dell’intervento, successivo alla prima invasione, era affidato alle forze della Repubblica Democratica Afghana, la quale non riusciva a contrastare la forza sempre più crescente dei guerriglieri, supportati anche da nazioni straniere, come Pakistan e Stati Uniti. Infine, alla guida del PCUS non vi era più Brežnev, ma Gorbačëv, il quale nel XXVII Congresso del PCUS rese pubblica la volontà di non continuare il combattimento in Afghanistan.

A PARTIRE DAL GENNAIO DEL 1988 le truppe sovietiche iniziarono a ritirarsi de facto, mentre il 14 aprile vennero firmati gli accordi di Ginevra, che stabilivano la ritirata dell’Unione Sovietica in due periodi diversi: nel periodo tra il 15 maggio e il 16 agosto 1988 e tra il 15 novembre 1988 e il 15 febbraio 1989. Simbolicamente, l’ultimo soldato sovietico a lasciare l’Afghanistan fu lo storico generale della 40° Armata, Boris Gromov. Il 15 febbraio l’Unione Sovietica lasciava l’Afghanistan attraverso il ponte sul fiume Amu Darya, con un bilancio di 14.453 morti, 53.753 feriti (di cui 10.751 resi invalidi) e 415.932 malati. Venne chiamato “il Vietnam sovietico”.

 

Di Flavio Barbaro.



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Crediti per la musica del podcast:

The Travelling Symphony by Savfk | https://www.youtube.com/savfkmusic
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