La canzone d'autore è poesia, ma non tutta!
- Redazione
- 23 set 2019
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 11 nov 2019

Rispondo con piacere alla redazione de “La Voce Cortonese” che nella persona di F.B. mi ha gentilmente chiesto di scrivere un articolo sulla canzone d’autore italiana e che, di fatto, riprende e conclude un discorso iniziato in classe proprio durante una lezione al Liceo “ Luca Signorelli”. Argomento non facile considerando il momento storico-artistico della canzone italiana. Partiamo proprio da qui, dall’attualità, citando, a caso, due esempi delle hit italiane che hanno accompagnato la nostra estate. La prima: “Calipso” Charlie Charles (with Dardust) ft. Sfera Ebbasta, Mahmood, Fabri Fibra, il ritmo è appunto quello del calipso, genere musicale certo non nuovissimo (nasce agli inizi del 900 ai Caraibi), l’armonia è modulata in un giro di accordi (8) che si ripetono dal’inizio alla fine, il testo raggiunge l’apice con “…questi finti sorrisi mi mandano in crisi oh oh oh oh..”. La seconda hit: “Dove e quando” Benji e Fede, il ritmo è un reggaeton (ancora!) che si sviluppa in un giro di quattro accordi, ma il brano dà il meglio di sé nel testo: “dimmi dove e quando, da stasera non arrivo in ritardo, senza tante parole manda la posizione” (sigh!), o se preferite vi suggerisco un verso indimenticabile: “le nostre litigate ce le paghiamo a rate…” .
Questo è il livello attuale del panorama musicale italiano, ci sono per fortuna molte eccezioni. Voglio chiarire che non intendo snobbare nessun tipo di musica, io ascolto e apprezzo tutto ciò che “è” e che “fa” musica, ritengo inoltre che sia giusto e sacrosanto che ogni generazione abbia i propri miti canori.
Ma, alla luce dei miei gusti e formazione musicale, niente e nessuno può impedirmi di dare un giudizio critico e quindi esprimere un mio personalissimo (e opinabilissimo) parere sulla qualità artistica di un brano musicale o di un musicista. Certo se penso agli adolescenti che ascoltano i pezzi da me sopra citati non posso non fare un paragone con gli adolescenti, miei coetanei, che negli anni ’70 ascoltavano, pure loro, un pezzo intitolato “Dove…Quando”, stesso titolo ma di sostanza artistica diversa, mi riferisco infatti ad un brano che fa parte dell’ album: “Storia di un minuto” (1972) della Premiata Forneria Marconi, opera d’arte di altissimo valore, primo enigmatico e poetico capolavoro progressive, creato da Franco Mussida, Mauro Pagani e Mogol per i testi.
Proprio Mogol ed altri autori, costituiscono un patrimonio di parole che ognuno di noi si porta dentro.
Se prendiamo in considerazione la seconda metà del secolo scorso, sono soprattutto le cosiddette scuole cantautorali italiane che la fanno da padrone nella produzione di canzoni-poesie. La scuola genovese con Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Paolo Conte, Umberto Bindi, più tardi Ivano Fossati e Francesco Baccini; la scuola milanese con Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Adriano Celentano, Roberto Vecchioni, Enrico Ruggeri; la scuola bolognese con Francesco Guccini, Lucio Dalla, Zucchero Fornaciari, e più tardi Luca Carboni; la scuola romana con Franco Califano, Claudio Baglioni, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Renato Zero ed oggi rappresentata degnamente da Alessandro Mannarino. Ecco credo che questi artisti, insieme ad altri e “alti” autori come Franco Migliacci (cortonese), Sergio Endrigo, Riccardo Cocciante (ma ovviamente l’elenco andrebbe completato!) vadano considerati i poeti del secondo novecento italiano. Il fenomeno non riguarda solo il nostro paese, non a caso il cantautore americano Bob Dylan, nel 2017 ha vinto il Premio Nobel per la letteratura.
La Scuola Italiana è gravemente in ritardo, tra una o due generazioni non potrà fare a meno di inserire nei propri programmi lo studio di questi artisti che sono “giganti” della nostra cultura e della nostra tradizione, i soli che siano riusciti a fotografare e rappresentare in poesia i tempi difficili, contraddittori ma, nello stesso tempo, straordinari della seconda metà del cosiddetto “secolo breve”.
Chiudo questo mio lungo articolo - ma non concludo affatto l’argomento che riprenderemo eventualmente in altre occasioni - chiudo, dicevo, citando e condividendo appieno quanto ha espresso a tal proposito il critico d’arte Vittorio Sgarbi: “Ho detto più di ogni altro che la canzone italiana d’autore fa parte di quella necessità che l’uomo ha di poesia attraverso la musica. A un certo punto la poesia interrompe la sua comunicazione con Gabriele D’Annunzio, forse con Ungaretti e il suo “m’illumino d’immenso”, poi non c’è più poesia, ci sono solo poeti ma scrivono solo per se stessi. Dagli anni ’50 la canzone prende il posto della poesia. La canzone italiana ad oggi ha sostituito la poesia, con i cantautori, non solo quelli dotti come Conte, De André, Guccini ma, per esempio, anche con Fred Buscaglione. La poesia non passa più, si è come incagliata in una lingua il cui linguaggio diventa esercizio puro, con autori anche apprezzati come Andrea Zanzotto, però non passa, la canzone invece entra dentro.
Questo patrimonio ci ha penetrati, siamo immersi in un universo di parole attraverso la canzone che un tempo era la poesia e l’opera lirica”.
Romano Scaramucci
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