«Enrico! Basta!»
- Redazione
- 7 giu 2020
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Il primo giugno del 2019, alle ore 17.00 stavo partecipando all'incontro tenutosi al Centro Convegni Sant'Agostino a Cortona, nella sala Pancrazi, in cui Antonio Padellaro, il celebre giornalista e fondatore de Il Fatto Quotidiano, presentava il suo libro "Il gesto di Almirante e Berlinguer" (Antonio Padellaro, Ed. PaperFirst, aprile 2019): appena vidi il manifesto a Camucia, appeso all'entrata di Via di Murata, sono corso immediatamente a comprare il libro in questione ed ho fissato la data sul calendario. Ho letto avidamente quel libro. Nutro un'ammirazione sproporzionata per il periodo politico di cui si discute.
Vorrei aprire l'editoriale con delle parole, scritte da Padellaro negli intermezzi narrativi tra un ragionamento istituzionale ed una supposizione, oppure un semplice racconto.
È stato in via del Tritone, fermi al semaforo che segna il rosso. [...] È in quel preciso istante che A. decide. «Prendi il Traforo», dice all'autista. L'ombra non capisce, è seduto davanti, si gira: «Dove andiamo?» A. non risponde. [...] Sa che sarà accolto con rispetto, ma teme la folla, la tensione che c'è nell'aria, qualche gesto sconsiderato. Dice all'autista: «Prendi via Nazionale». L'ombra capisce. L'auto procede fino a piazza Venezia, a passo d'uomo tra la folla di uomini e donne che camminano in silenzio. A. dice: «Scendo qui». Si rivolge all'ombra: «Tu non venire». [...] Lo segue a distanza. A. si gira e gli fa segno di no col dito. [...] Nessuno fiata. Varca il portone delle Botteghe Oscure. Gli fanno strada i dignitari del grande partito in lutto. Ritto, con il suo abito grigio, sosta al centro della camera ardente. Si fa il segno della croce e leggermente s'inchina di fronte alla cassa di legno chiaro. Dirà: «Sono venuto a rendere omaggio a un uomo da cui mi ha diviso tutto ma che ho sempre apprezzato e stimato». Lui oggi è lì. Lui sa perché.
In questo pezzo Antonio Padellaro non si concentra sul personaggio del più amato (che nel libro viene indicato con la lettera B. che sta per Berlinguer Enrico), quanto sull'allora repubblichino (nel libro A. che sta per Almirante Giorgio), il quale va a rendere omaggio con un gesto (questa parola nel libro viene analizzata in maniera particolare e profonda dal giornalista) quasi repentino e non calcolato, in cui sente di dover dare un ultimo saluto al suo avversario più leale. Io sono convinto che Almirante ne sentisse veramente il bisogno, poiché la lealtà non è, fortunatamente, politicizzata.
All'incontro feci anche una domanda in privato al giornalista, Antonio Padellaro (molto disponibile con i giovani): «Avremo mai un altro Berlinguer ed un altro Almirante? I giovani come possono conservare il loro ricordo?», la sua risposta, drammaticamente esemplare, fu questa: «Ahimé, credo che ormai loro appartengano a tutta un'altra epoca, diversa da oggi, voi giovani cercate di conservare il ricordo, l'ho scritto nella dedica "una storia del passato che parla al presente"».
Vorrei però suggerire un altro estratto letterario, stavolta dall'opera monumentale della scrittrice Chiara Valentini, intitolata proprio Enrico Berlinguer (Chiara Valentini, Feltrinelli, maggio 2014). Al capitolo XXIV, Idee per il futuro, si descrivono gli ultimi giorni del segretario con queste parole:
A Padova Berlinguer lavora quasi tutto il pomeriggio al testo del comizio, aiutato da Tonino Tatò. [...] Alle nove e mezzo è sul palco di piazza della Frutta. Come è sua abitudine non ha cenato prima del comizio. Salendo i pochi gradini inciampa, ma si riprende subito. È una strana sera fredda e nuvolosa, con il cielo attraversato da lampi. [...] Berlinguer, invece, che porta una giacca a quadrettini, ha il primo bottone della camicia slacciato, come se volesse respirare liberamente. Per mezz'ora tutto va bene. [...] Ma ecco un primo segno di affanno. «Siamo di fronte a un momento pieno di insidie per le istituzioni della Repubblica. Ma è certo che...» Berlinguer è impallidito, il tono della voce è calato, la frase resta a metà. L'oratore si volta, le spalle al microfono, per prendere un bicchiere d'acqua, ma appena lo beve è colto da colpi di tosse e da conati di vomito. Lo schermo gigante che i comunisti padovani hanno messo dietro il palco rimanda alla piazza l'immagine di una faccia alterata, contratta. «Enrico, Enrico,» cominciano a scandire i militanti. Qualcuno urla: «Sta male, fatelo smettere». Ma Berlinguer vuole continuare a ogni costo. Il giorno dopo la televisione italiana trasmetterà le immagini del segretario del Pci che tira avanti eroicamente fino alla conclusione pronunciando frasi ormai smozzicate sulla P2, sugli scandali, sulla democrazia malata. Che si copre il volto con un fazzoletto, che scende quasi inerte le scale del palco sorretto dai suoi compagni. Comincia la grande emozione collettiva che durerà per quattro giorni, fino alla mattina di lunedì 11 giugno, quando Enrico Berlinguer, cessa di vivere.
In questi passi si riesce ad intravedere un segretario che percepisce la morte, e vedendola giungere imminente, decide (secondo me, con uno di quei gesti, descritti nell'opera parallela di Antonio Padellaro) di continuare il discorso fino alla fine, di portarlo a termine e di concludere il suo percorso politico ed umano come il segretario, il politico ed il più amato (nome affibbiatogli dopo la sua morte, con riferimento al soprannome di Palmiro Togliatti, il quale invece era il migliore). Concluderà la sua vita in maniera estremamente dignitosa, istituzionale, quasi inumana per la gente comune: alcune delle sue ultime parole rimarranno nel gergo politico italiano per molti anni, usate a sproposito anche da classi politiche che non hanno nemmeno l'idea di chi sia questo sardomuto (altro soprannome assegnato a Berlinguer, in riferimento al suo essere sardo, ed al fatto che non parlasse molto), come le celebri «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada».
E.B.
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